L’allattamento protegge le donne dalla malattia cardiovascolare
La durata dell’allattamento appare influenzare l’insorgenza di eventi cardiovascolari nelle donne dopo l’età fertile.
Anche da lavori precedenti era emerso che le donne che allattano hanno profili cardiometabolici più favorevoli ( aumento del colesterolo HDL, bassi livelli di glicemia e trigliceridi ) rispetto a quelle che non allattano.
I dati di Stuebe sono anche consistenti con la recente dimostrazione che gli effetti favorevoli sui profili di fattori di rischio persistono anche dopo lo svezzamento.
In particolare, in media dopo 13 mesi dallo svezzamento, i livelli plasmatici di colesterolo HDL si sono rivelati 6 mg/dL più alti tra le donne che avevano allattato per più di 3 mesi rispetto a quelle che lo avevano fatto per un periodo inferiore ai 3 mesi, dopo aggiustamento per misure pre-concepimento e altri fattori confondenti.
Nella stessa coorte, una più lunga durata dell’allattamento è risultata associata a una tendenza non-significativa verso una più ridotta circonferenza vita e verso livelli più bassi di peso corporeo, trigliceridi a digiuno, colesterolo LDL e glicemia.
Un altro studio longitudinale ha mostrato che livelli più elevati di colesterolo HDL post-partum sono mantenuti anche dopo 2 mesi dallo svezzamento, mentre la diminuzione di trigliceridi, colesterolo LDL e glicemia non perdura dopo lo svezzamento.
Nell’analisi della coorte del Nurse's Health Study, Stuebe e colleghi hanno messo in luce che rispetto alle donne che non hanno mai allattato, quelle che hanno allattato per oltre 2 anni presentano un’incidenza del 23% più bassa di infarto del miocardio decenni più tardi.
L’associazione protettiva è stata riscontrata soprattutto per le donne di età maggiore o uguale a 50 anni che avevano partorito nei 30 anni precedenti, ed è risultata caratterizzata da un effetto soglia a 24 mesi di allattamento, piuttosto che da riduzione lineare inversa graduata nel rischio con l’aumento della durata cumulativa dell’allattamento.
Sia il numero di figli sia la lunghezza media dell’allattamento per nascita potrebbero aver influenzato l’associazione protettiva in questa coorte.
Benchè il 60% della coorte abbia partorito almeno 3 figli, il 70% ha allattato per un totale di 6 mesi. Di conseguenza, per le primipare e le donne appartenenti ad altri gruppi di parità potrebbe essere stata bassa la probabilità di allattare per oltre 2 anni, e quindi i dati dello studio forniscono informazioni sullo stato di rischio tra multipare che in genere hanno allattato per un periodo inferiore a 2 anni per ogni parto.
Rimane da chiarire se una durata più estesa dell’allattamento in 1 o 2 gravidanze conferisca la stessa protezione di periodi multipli di più breve durata distribuiti su diverse gravidanze.
Gli Autori hanno ammesso di non essere stati in grado di determinare se l’associazione protettiva tra allattamento e rischio di coronaropatia variasse in base al numero di figli a causa della scarsità di dati relativi a gruppi a bassa parità e categorie di durata dell’allattamento.
È particolarmente importante capire se l’associazione tra allattamento e coronaropatia possa variare in base al numero di figli dal momento che gli Autori avevano precedentemente riportato che un allattamento maggiore o uguale a 4 mesi è associato a una riduzione del 25% di diabete mellito di tipo 2 nella stessa coorte, come riferito dalle persone coinvolte nello studio.
Studi epidemiologici trasversali hanno anche dimostrato che l’allattamento potrebbe avere benefici a lungo termine per la salute cardiometabolica delle donne.
In questi studi, un mese di allattamento o aver allattato sono risultati associati a odds più bassi del 21-22% sulla prevalenza di sindrome metabolica nelle donne di mezza età e da anziane.
Ciò che è degno di nota circa i dati di questi studi è che una durata inferiore dell’allattamento è risultata associata a più bassi rischi di malattia tra le donne negli anni successivi.
Per gli studi sull’associazione allattamento-malattia, un bias di selezione costituisce una possibile fonte di confondimento poichè è più probabile che le donne che decidono di allattare i propri figli godano di un migliore stato di salute e adottino stili di vita più salutari rispetto alle donne che decidono di allattare artificialmente. Inoltre, un’altra limitazione di questi studi è che nessuno ha misurato i fattori di rischio prima della gravidanza o ha riportato complicazioni della gravidanza.
La misurazione di fattori di rischio pre-concepimento o post-parto e la classificazione delle complicanze della gravidanza ( pre-eclampsia, diabete gestazionale ) potrebbero ridurre il confondimento nell’associazione allattamento-malattia.
Dal momento che la maggior parte degli studi è stata condotta soprattutto in donne caucasiche non è chiaro se i risultati su allattamento e coronaropatia possano essere generalizzati a gruppi multietnici/multirazziali o a donne con un numero minore di parti, ma con periodi di allattamento per parto più lunghi.
Queste considerazioni mettono in luce l’importanza di chiarire i meccanismi attraverso i quali l’allattamento potrebbe influenzare i fattori di rischio di malattia cardiovascolare.
Le donne che allattano mostrano livelli inferiori di glicemia e insulinemia, un profilo lipidico meno aterogenico, un declino post-partum più rapido dei livelli di colesterolo totale e di trigliceridi, e una mobilizzazione della massa grassa maggiore durante il primo anno dopo il parto rispetto alle donne che non allattano.
Nelle donne brasiliane a 12-18 mesi dopo il parto ( 67% ancora in fase di allattamento ) un prolungamento dell’allattamento è risultato associato a una minore area sotto la curva per l’insulina, probabilmente a protezione della futura secrezione insulinica.
Questi effetti favorevoli sui fattori di rischio potrebbero non essere mediati dalla perdita di peso, date le prove contrastanti circa l’allattamento e il mantenimento del peso dopo il parto.
Una possibile spiegazione si basa sul fatto che l’allattamento possa ridurre l’adiposità centrale dal momento che il grasso è preferenzialmente mobilizzato dalle regioni soprailiache e sottoscapolare.
Pochi studi hanno valutato se questi effetti favorevoli persistono dopo lo svezzamento o controllati per il confondi mento, ad esempio, da stili di vita e aumento di peso.
Poichè Stuebe e colleghi non hanno misurato i cambiamenti nei fattori di rischio per la malattia coronarica, ( lipidi e indici metabolici ) non è possibile determinare i meccanismi che spiegano le associazioni protettive osservate.
Il miglioramento dei tassi di allattamento ha potenzialmente un impatto positivo sulla salute della donna e l’allattamento al seno potrebbe avere effetti benefici sulla salute a lungo termine sia per le madri sia per i bambini.
L’allattamento ha effetti favorevoli sui livelli di fattori di rischio cardiometabolico che persistono dopo lo svezzamento e potrebbero ridurre il rischio di sviluppare coronaropatia e diabete mellito di tipo 2 nelle fasi centrali o avanzate della vita.
Tuttavia non sono disponibili dati all’interno della stessa coorte che leghino direttamente l’allattamento a cambiamenti persistenti nei fattori di rischio cardiometabolico ( livelli plasmatici di lipidi, glucosio e insulina, e adiposità centrale ), nella malattia subclinica o negli eventi di malattia.
Questi dati sono risultati in larga misura inutilizzabili a causa dell’ampio periodo di tempo tra gli anni fertili e l’insorgenza di coronaropatia nelle donne. ( Xagena2009 )
Gunderson EP, Am J Obstet Gynecol 2009; 200: 119-120
Cardio2009 Gyne2009
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