I probiotici sono efficaci nel prevenire la diarrea associata a Clostridium difficile
L’infezione da Clostridium difficile ( CDI ) è la principale causa di diarrea associata agli antibiotici.
Nel corso delle ultime decadi l’incidenza e la gravità dell’infezione da Clostridium difficile è aumentata, ed oggi rappresenta un problema di salute a livello mondiale sempre più associato a notevoli costi di assistenza sanitaria e a una significativa morbilità e mortalità.
Una meta-analisi ha esaminato l'impatto dei probiotici sulla incidenza della diarrea associata a Clostridium difficile ( CDAD ) tra i bambini e gli adulti, sia in ambito ospedaliero che ambulatoriale.
E’ stata compiuta una ricerca di letteratura con l’obiettivo di individuare tutti gli studi randomizzati di controllo pubblicati in modo da valutare l'impiego dei probiotici nella prevenzione della diarrea associata a infezione da Clostridium difficile nei pazienti sottoposti a terapia antibiotica.
E’ stata analizzata l'incidenza della diarrea associata a infezione da Clostridium difficile.
L’analisi ha preso in considerazione 26 studi randomizzati di controllo che hanno coinvolto 7.957 pazienti.
L’uso dei probiotici ha ridotto in modo significativo il rischio di sviluppo della diarrea associata a Clostridium difficile del 60.5% ( rischio relativo, RR=0.395; CI 95%, 0.294-0.531; P inferiore a 0.001 ).
I probiotici si sono dimostrati utili negli adulti e nei bambini ( 59.5% e 65.9% di riduzione ), in particolare tra i pazienti ospedalizzati.
Lactobacillus, Saccharomyces, e una miscela di probiotici hanno prodotto tutti una riduzione del rischio di diarrea associata a infezione da Clostridium difficile ( 63.7%, 58.5% e 58.2% di riduzione ).
In conclusione, la supplementazione con probiotici è associata a una significativa riduzione del rischio di diarrea da Clostridium difficile nei pazienti trattati con antibiotici.
Ulteriori studi sono necessari per determinare la dose ottimale e il ceppo del probiotico. ( Xagena2016 )
Lau CSM, Chamberlain RS, International Journal of General Medicine 2016: 9; 27-37
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