Linee guida AIOM 2021 - Disordini tromboembolici e cancro: Patogenesi


I meccanismi fisiopatologici alla base dell’insorgenza del tromboembolismo venoso nei tumori solidi rientrano nella cosiddetta triade di Virchow, che include: 1) alterazioni dell’emostasi, 2) alterazioni della parete vasale e 3) la stasi ematica.
A questi vanno aggiunte le alterazioni qualitative e quantitative delle piastrine e dei leucociti.

I pazienti neoplastici, come è noto, presentano uno stato di ipercoagulabilità di base, anche in assenza di trombosi clinicamente manifeste. Tale stato è caratterizzato da anomalie di uno o più test di laboratorio dell’emostasi, che dimostrano diversi gradi di attivazione subclinica della coagulazione in associazione alla crescita tumorale.

Un ruolo importante nella patogenesi dello stato di ipercoagulabilità presente nelle neoplasie è attribuito alle proprietà protrombotiche delle stesse cellule tumorali. Tali cellule possono attivare la cascata coagulativa con un meccanismo diretto, mediante la produzione di sostanze procoagulanti come: 1) il tissue factor o tromboplastina tessutale, che è espressa costitutivamente da queste cellule e che forma un complesso con il fattore VII per attivare la cascata coagulativa; e 2) il cancer procoagulant, che è una cistein-proteasi identificata nelle cellule tumorali e nei tessuti fetali, ma non nei tessuti maturi differenziati, che attiva il fattore X in assenza del fattore VII.

Le cellule tumorali possono, altresì, attivare il sistema coagulativo attraverso meccanismi indiretti, determinando l’attivazione di altre cellule ematiche, come i monociti, le piastrine e le cellule endoteliali, inducendo, in queste cellule, l’espressione di un fenotipo procoagulante.
Infatti, monociti, piastrine e cellule endoteliali entrano comunemente a far parte del network infiammazione-immunità e sono suscettibili di attivazione da parte delle citochine ( IL-1, VEGF, TNF ) prodotte dalle cellule tumorali.

L’attivazione del complemento e la formazione di immunocomplessi possono anch’essi partecipare alla stimolazione dei monociti, che, una volta attivati, sono in grado di esporre il tissue factor sulla loro superficie ed indurre a loro volta i meccanismi della coagulazione.

Infine, le cellule tumorali possiedono molecole di adesione di superficie con le quali possono aderire direttamente ai leucociti, alle piastrine e alle cellule endoteliali, attivando tali cellule ed inducendo localmente la produzione di fibrina. Tutto ciò, insieme ad altri fattori generali, come la stasi da compressione da parte delle masse tumorali, la presenza di uno stato infiammatorio, la disprotidemia, le infezioni e l’allettamento, contribuiscono allo stato di ipercoagulabilità di questi pazienti, come evidenziato dall’incremento dei marcatori circolanti di attivazione della coagulazione.

Nonostante le alterazioni di questi marcatori siano presenti nella maggioranza dei pazienti con cancro, non è stato ad oggi dimostrato il valore predittivo per lo sviluppo di trombosi per la maggior parte di questi test nei pazienti oncologici.

Le terapie farmacologiche antitumorali come la chemioterapia tradizionale, la terapia ormonale, la terapia antiangiogenica e i farmaci biologici sono associati, soprattutto nelle terapie di combinazione, a un’elevata incidenza di tromboembolismo venoso.

Le evidenze più significative sull’associazione chemioterapia e tromboembolismo venoso sono scaturite da studi nei pazienti con tumore della mammella nelle quali la terapia ormonale con Tamoxifene, la chemioterapia, la terapia combinata ( chemioterapia più Tamoxifene ), lo stadio della malattia e lo stato menopausale, si associano all’incidenza del tromboembolismo venoso.
Tale incidenza è valutabile tra il 5% e il 17%, a seconda dello stadio della malattia e del tipo di terapia.

Il rischio di tromboembolismo venoso durante la chemioterapia e nel primo mese dopo la sospensione è, rispettivamente, 10.8 e 8.4 volte superiore rispetto a quello di donne non-sottoposte a chemioterapia. Tale rischio rimane cinque volte più elevato anche dopo tre mesi.

Diversamente, l’uso di inibitori delle aromatasi, rispetto al Tamoxifene, non sembra associato ad una maggiore incidenza del tromboembolismo venoso.
Pertanto, nei pazienti con carcinoma mammario in terapia adiuvante con Tamoxifene, un inibitore dell’aromatasi viene generalmente preferito al Tamoxifene dopo un episodio di tromboembolismo venoso.

Un rischio particolarmente elevato è stato riscontrato nei pazienti con malattia metastatica sottoposti a chemioterapia. ( Xagena2021 )

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